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INTERVISTA ALLE LUNÀDIGAS: NICOLETTA NESLER E MARILISA PIGA

Lunàdigas.png

di Giulia Po DeLisle, Ph.D.

Associate Teaching Professor in Italian Studies

Department of World Languages and Cultures

UMass Lowell

Maggio, 2021

 

Nella seguente intervista, Nicoletta Nesler e Marilisa Piga raccontano la loro esperienza di registe, ripercorrendo le tappe del loro percorso documentaristico, dai primi cortometraggi sulla disabilità al percorso che da più di due decenni le vede dedite ad esplorare la vita delle donne che scelgono di non avere figli, un impegno culminato nel documentario Lunàdigas, ovvero delle donne senza figli e che prosegue tutt’ora attraverso il loro Archivio Vivo, una ricca collezione di video-testimonianze dall’Italia e dal mondo. 

 

Giulia Po DeLisle: La vostra collaborazione è cominciata negli anni ’90. Come vi siete conosciute, come avete portato avanti i vostri progetti insieme e come lavorate insieme?

 

Nicoletta Nesler: Nel 1991, sono stata assunta alla RAI di Cagliari, e il primo compito che mi è stato affidato è stato quello di organizzare una trasmissione radiofonica. Al tempo ci si poteva avvalere di collaborazioni esterne; un suggerimento di una collega e un gran colpo di fortuna hanno fatto sì che incontrassi Marilisa. Abbiamo individuato il desiderio comune di parlare di temi per i quali bisognava sperimentare un nuovo linguaggio. Insieme abbiamo scelto, per cominciare, argomenti collegati alla disabilità, prima alla radio con una trasmissione che si chiamava Lo dice la radio e poi attraverso la televisione, l'illuminatissima RAI 3 di Guglielmi. Siamo state chiamate a Roma per realizzare dei documentari per una serie televisiva che si chiamava Storie Vere.

 

Marilisa Piga: La proposta ci ha elettrizzato. Era il riconoscimento del nostro nuovo modo di trattare il tema della disabilità attraverso le storie personali di chi viveva quella condizione. Nel 1992 non era per niente scontato. Il primo documentario – A nostro gradimento - che abbiamo sempre nel cuore, raccontava di cinque ragazzi con la sindrome di Down, soli in uno studio radiofonico, in autogestione, che parlavano tra loro del significato di essere persone Down. Per noi un'esperienza indimenticabile. Il secondo doc è stato Visione di gioco e trattava di un torneo di pallone giocato da non vedenti assoluti; nel terzo, Profondo sub, le persone con gravi disabilità come non vedenti e paraplegici, imparavano a fare immersioni subacquee senza pericoli. Da quei tempi non abbiamo più smesso di lavorare insieme. E siamo ancora qui dopo 30 anni.

 

GPD: La prima testimonianza del progetto Lunàdigas risale al 1999. Chi sono state le prime donne ad aprirsi a queste vostre interviste. Erano amiche, amiche di amiche…?

 

NN: Dopo queste prime storie vere, il nostro impegno è stato raccontare storie di artiste. Una di queste è stata Maria Lai, importante artista sarda che aveva studiato, durante la Seconda guerra mondiale, all’Accademia di Belle Arti di Venezia con Arturo Martini. A lei, senza averlo preparato prima, abbiamo chiesto quali fossero i suoi sentimenti riguardo alla maternità. Maria ci ha candidamente risposto di avere un antico accordo con la sorella Giuliana: se nella vita le fosse capitato di avere figli li avrebbe fatti allevare a lei che già da piccola dimostrava uno spiccato istinto materno. 

 

MP: Sono trascorsi molti anni dopo questa prima generosa confidenza, prima che maturasse il tema e trovassimo il coraggio di affrontarlo. Forse dobbiamo riconoscere lì l’origine del nostro percorso, veramente un'origine remotissima. Nicoletta ed io abbiamo sempre avuto un forte interesse per le storie al femminile, ma non avevamo ancora individuato un argomento poco esplorato e soprattutto intimo, come quelli che sempre ci è piaciuto ascoltare e raccontare. Quando istintivamente abbiamo adottato la pratica imparata dal femminismo del cominciare da sé, è apparso chiaro quale fosse l'argomento giusto, quello che comprendeva noi insieme a tantissime donne, che risultava imbarazzante e incomprensibile alla maggior parte delle persone, che sarebbe stato difficile proporre e nello stesso tempo accolto con sollievo, di cui nessuna donna parlava in pubblico soprattutto se dichiarava apertamente di aver scelto di non avere figli. 

 

GPD: La maggior parte delle testimonianze da parte di donne che hanno fatto la scelta di non diventare madri sono state fatte quasi dieci anni dopo, a partire dal 2009, che cosa è successo in quegli anni che vi ha poi spinto a focalizzarvi su questa tematica? 

NN: Abbiamo iniziato nel 2002 a parlare con le amiche, ci tenevano al telefono per ore, ma quando chiedevamo se potevamo riprendere con la telecamera il dialogo si tiravano tutte indietro. La persona che ha rotto veramente il ghiaccio è stata Margherita Hack. Mi trovavo a Trieste per lavorare a un progetto su di lei e timida le ho fatto delle domande su questo tema. Dalla sua testimonianza è cominciato tutto! Naturalmente anche i tempi stavano cambiando e pian piano diventava più facile parlare di scelte di maternità e non maternità. 

MP: Certo più facile ma non così immediato come avremmo voluto. Abbiamo incontrato molte resistenze e insieme immense disponibilità che ci hanno fatto bene al cuore e ai pensieri. Per qualche tempo sembrava di stare sulle montagne russe mentre raccoglievamo dinieghi dalle conoscenti e contemporaneamente richieste di donne sconosciute che chiedevano con entusiasmo di partecipare al racconto corale. La coralità soprattutto ha convinto: l'idea di far parte di un gruppo di persone con un vissuto molto simile ha spinto tante a rompere gli indugi e a mettersi in gioco. Devo ammettere che spesso abbiamo avuto degli incontri tanto speciali da commuoverci.

GPD: La parola sarda, lunadigas, si utilizza per riferirsi alle pecore che non possono riprodursi, ma richiama anche la parola lunatica che può avere un’accezione negativa. Potete raccontare come è nata la decisione di abbracciare questo termine per dare finalmente un nome alle donne che non hanno figli e cosa ha significato per voi adottare questa parola?

 

MP: Abbiamo cercato a lungo un termine che definisse la condizione delle donne senza figli per scelta. In italiano ci sono solo le negazioni: senza figli, non madre. E noi volevamo fortemente una parola che affermasse con decisione la scelta. Improvvisamente ho trovato notizie di una piccola scultura di Monica Lugas dedicata alle donne senza figli, il titolo era Lunadiga. È un'artista sarda che abbiamo conosciuto poco dopo, che ci ha spiegato il significato di lunadiga, ci ha regalato il suo titolo con generosità e noi abbiamo solo aggiunto una ‘s’ finale per il plurale e un accento sulla “à” per guidare la pronuncia. Avevamo trovato il termine tanto cercato nella lingua sarda, per definirci con ironia come le pecore quando non figliano.   

 

NN: Lunàdigas è piaciuto subito, molte donne hanno cominciato a definirsi lunàdigas con orgoglio e divertimento, l'accostamento con le pecore non ha sconcertato nessuna, anzi l'uso della grafica con gruppetti di pecore che giravano per il mondo ha funzionato come riconoscimento di una condizione comune a tutte le latitudini, che finalmente si poteva esplicitare senza drammi. Lunàdigas è stato da subito un nome premiante.

 

GPD: Come è stato il vostro incontro con il movimento femminista?

 

NN: Provengo da una famiglia altoatesina e visto che a Bolzano, al tempo, non c’erano università, ho avuto la possibilità di andare a studiare a Firenze. È stato il giro di boa per la mia vita! Ho iniziato a guadagnare i soldi che mi servivano e a vivere con altre persone. Era l’autunno del ’76. L’anno successivo, il ’77, è stato un anno indimenticabile. In Italia tante cose sono state messe in discussione e io non potevo non incontrare anche il femminismo. Per me è stato fantastico: l’autocoscienza, il teatro politico di strada, l’atmosfera che respiravamo e che contribuivamo a creare sono state la mia vera formazione. Frequentavo un collettivo femminista che si chiamava “La commedia di Parte”, nasceva nel contesto dell’esaltante esperienza politica del quartiere fiorentino dell’Isolotto. 

MP: Ho partecipato per la prima volta a una riunione femminista nei primi anni Settanta a Roma, dove ho vissuto per qualche anno. La riunione plenaria del collettivo si teneva mensilmente in una stanza enorme dove tutte fumavano tranne me. Il gruppo era di almeno 150 donne che parlavano tutte assieme. Mi ricordo che tornavo a casa stordita e con le orecchie stanche. Invece mi piacevano tanto le riunioni del piccolo gruppo, eravamo solo in cinque e si parlava veramente di tutto, per la prima volta nella mia vita. Era un modo molto affettuoso di confrontarsi e di crescere. Il collettivo prevedeva anche un'altra riunione settimanale: quella delle cosiddette commissioni. Lì ho sentito un modo antipatico di definire le donne senza figli: rami secchi. Per un momento ho pensato che si potesse usare con sarcasmo come titolo del nostro progetto, ma per fortuna Lunàdigas ci ha trovato al momento giusto e ha fugato tutti i dubbi.  

 

GPD: Il documentario Lunàdigas si apre con un archivio personale: Marilisa fa un riferimento molto preciso al corpo e poi entrambe parlate delle vostre madri. Come è stato il rapporto con le vostre madri? Secondo voi il rapporto con la madre influisce davvero sulla scelta di una donna di volere o non volere figli?

 

NN: Mia madre era una persona libera, fantasiosa, originale, ma orribilmente incastrata in un ruolo di moglie più che di madre. Non credo che la mia decisione sia stata influenzata principalmente da lei; io figli non ne ho perché ho incontrato, proprio in quei miei anni fiorentini, i movimenti politici in cui si discuteva della famiglia e del suo ordine claustrofobico. Credo di non potere ricordare una sola testimonianza, sul numero incredibile di quelle raccolte, in cui la donna non faccia riferimento alla figura della madre. 

 

MP: Lunàdigas, ovvero delle donne senza figli si chiude con una dedica alle nostre madri a dimostrazione che anche noi abbiamo sentito il bisogno di ripensare al rapporto con la propria madre. Personalmente ho avuto un rapporto molto conflittuale con la mia fin da piccola. Ho smesso presto di chiamarla mamma, non mi riusciva proprio. Infatti, la mia scelta non dipende dalla relazione materna, piuttosto è legata alla presenza di mia sorella nata un anno e mezzo dopo di me, cerebrolesa, senza parole, che ho amato moltissimo e protetto da subito. La mia esperienza è quella di tanti siblings, responsabili fin da piccoli, che spesso non si sentono in grado di mettere al mondo altri che richiederanno loro ancora nuove responsabilità.   

 

GPD: In una delle prime scene del film, siete entrambe su un treno che poi esce da un tunnel, una specie di metafora con cui inizia il vostro viaggio e un modo per rovesciare una stereotipica immagine fallica?

 

MP: C’è una affezione da parte di entrambe al treno. Per me c'è una ragione familiare perché mio padre era un dirigente delle Ferrovie Complementari della Sardegna. La littorina nella quale cominciamo il viaggio è un modello degli anni Cinquanta. Abbiamo scelto di ambientare molte scene del film in quegli anni. Del resto, Nicoletta ed io siamo nate in quel decennio, pur distanziate. La tratta che abbiamo percorso prevedeva una galleria, e noi, in modo del tutto automatico, abbiamo scelto di sottolineare l'uscita verso la luce dove sfolgora il titolo Lunàdigas.

 

GPD: Nel documentario ritagliate modelli anni ’50, e l’uso di questi ritagli dà inizio a un momento creativo e provocatorio di animazione. Com’è nata l’idea di ritagliare questi modelli?

 

NN: Le bambole di carta erano un gioco delle bambine degli anni ’50. Era un nostro gioco. Un ricordo che ci accomunava e che volevamo usare. Poi è stato usato come un espediente: volevamo tirar fuori tutti i luoghi comuni che riguardano le donne senza figli e lo abbiamo destinato all’animazione dove compariamo noi e diciamo tutte le possibili cattiverie.

 

MP: Ritagliare e incollare carta e cartoncino è da sempre una delle mie passioni. Era il gioco preferito da bambina quando stavo a letto con le tonsilliti, cioè tutto l'inverno, e ancora adesso mi piace fare i collage. Farlo dentro il film è stato un gran divertimento e considero quella una delle scene più comunicative del docufilm. Altra cosa è quel gran tappeto, ingrandimento del cartamodello di Burda, una rivista anni ’50 che serviva alle madri per confezionare cappottini, vestitini…. Una sarta non professionista poteva comprare la rivista e al centro trovava inserito questo foglio piegato che la guidava. Noi volevamo mettere in scena la nostra attività, il tagliare, cucire, cercare, che ben rappresenta il lavoro di ricercatrici e di registe. 

 

GPD: Il Burda sembra diventare metafora di un discorso sulla maternità o sulla non maternità: quando tracciate le linee da vicino sembra che stiate creando modelli veri, ma l’inquadratura finale dall’alto non sembra rivelare nessun modello vero. Tutte le linee tracciate blu e rosse – che richiamano l’idea del maschile e del femminile – e tutti i punti connessi non portano a nulla. 

 

NN: Si, il modello alla fine non si compone, non arriva alla giacchetta, non arriva a nulla, è solo un porsi, un sentire, è un prendere in considerazione ogni pezzo senza volerne fare una teoria. Però poi, sinceramente, di fronte a tante testimonianze, per spezzare le interviste ed evitare una sequela noiosissima di parole, dovevamo inventare dei fili per una esigenza di narrazione e per dire la nostra attraverso le immagini. 

 

MP: È stato molto divertente stare sdraiate sul cartamodello a tracciare ed estrarre martingale, colletti, polsini, maniche a raglan in dimensioni extralarge. Non era previsto che si componesse qualcosa di riconoscibile, anzi, la messa in scena era proprio mirata a sottolineare la ricerca dentro un intrico casuale.

 

GPD: Alle interviste, all’animazione e alle immagini che vi vedono protagoniste si alterna anche la recita di Monica Trettel, che interpreta i Monologhi impossibili di Carlo A. Borghi. Siete state voi a ispirare questi monologhi?

 

NN: Carlo A. Borghi, detto Cicci, è un performer, un visionario, un uomo originale. Lui fa parte integrante del nostro gruppo. Quando abbiamo cominciato a pensare a Lunàdigas e siamo diventate sempre più ossessive nel raccogliere le testimonianze e la voce di grandi matriarche come Lidia Menapace, ci siamo ispirate alla bellissima serie radiofonica Le interviste impossibili, un programma Rai degli anni Settanta in cui venivano intervistate figure illustri come Giulio Cesare, Platone, Manzoni... Monica è un’attrice amica altoatesina, ci ha raggiunto a Cagliari e abbiamo lavorato insieme con piacere.

 

GPD: Come avete scelto i personaggi che avete inserito nel documentario? Ci sono personaggi mitici come Lillith, donne rivoluzionarie come Rosa Luxemburg e si arriva fino alla Barbie. E dove si trova questo locus amoenus in cui avete girato queste scene? 

 

MP: Abbiamo affidato a Cicci (Borghi) il compito di creare per noi. E lui ha scritto il libro Monologhi Impossibili. Le esclusive rivelazioni di 35 mitiche Lunàdigas per le Edizioni Arkadia. Contiene le storie personali di donne del Mito, della Storia, della Letteratura, dell'Arte. Tutte rigorosamente senza figli. Lilith, Artemide, Jeanne D'Arc, Vittoria Colonna, La Monaca di Monza, Jane Austen, Barbie, Lucy Van Pelt e molte altre. Tra non molto diventeranno un podcast accessibile gratuitamente. Abbiamo girato all’Orto Botanico di Cagliari, un luogo veramente magico, meraviglioso. La logica è stata sempre quella di allargare, di cercare donne di altre epoche, personaggi letterari o realmente vissuti che ci facessero compagnia ed entrassero nel gruppo di Lunàdigas anche ex post con i loro pensieri che sono unici e irripetibili come le impronte digitali.

 

GPD: Quali differenze avete notato facendo le vostre interviste tra le donne della vostra generazione e le donne delle nuove generazioni? 

 

NN: Adesso credo se ne parli maggiormente, però io non penso che sia cambiato tanto. Certo le donne che testimoniano di essere state ‘piccole’ all’inizio del ‘900 è più probabile che avessero un genitore che dicesse “se non hai figli, che cosa sei?”. Oggi certo è più difficile trovare un padre o una madre che dica una cosa del genere. Però io non trovo che oggi sia diverso lo stato d’animo di una donna che si trova davanti a queste scelte, non vedo molte differenze né nelle generazioni, né nelle zone geografiche. Io sono stata in 27 punti del mondo, ho cercato sempre di parlare di questo tema e ho sentito che siamo comunque delle donne che non provano una cosa che potrebbero provare, come se quella fosse l’unica cosa che ci definisce. E sì, questo non cambia, anche nelle culture più evolute, sotto sotto passano da questo, allora se non hai figli devi eccellere nella carriera, devi essere bravissima in mille altre cose. Io una differenza non la so trovare.

 

MP: Non ho notato una gran differenza. In fondo tutte le donne si interrogano sulla maternità e ne parlano con le loro coetanee o in qualche caso, in famiglia. Le più giovani hanno, in teoria, meno costrizioni ma dipende molto dal contesto che le circonda. Alcune donne sanno cosa faranno fin da bambine. Io sono una di loro, a quattro anni dichiaravo di voler vivere da sola e di non volere figli.

Più avanti ho trovato in Jo March un fulgido esempio, non altre.

 

GPD: E adesso? Come continuerà Lunàdigas?

 

NN: Attraverso il nostro Archivio Vivo, a cui lavoriamo già da tempo, una raccolta di video con le testimonianze integrali delle donne intervistate per il film, ma anche tante nuove clip inedite che continueremo ad aggiornare. Vogliamo che sia uno spazio di ascolto e condivisione per ampliare la riflessione sulla maternità e sulla non maternità e uno spazio in continuo divenire che superi i confini italiani e diventi sempre più globale, raccontando anche la situazione delle donne senza figli di altre culture. 

 

GPD: Che cosa avete imparato di più attraverso le vostre interviste?

 

NN: Quando è uscito il film, siamo state invitate da un festival femminista tunisino che si chiama Chouftouhonna Festival e significa “guardateci”. Abbiamo avuto la fortuna di vincere un premio come miglior documentario. Il premio era un bracciale che nei caratteri arabi aveva questa scritta, Chouftouhonna. E io non ho mai smesso di indossarlo. Credo che questa sia l’indicazione più profonda che io ho avuto dal mettermi in ascolto e adesso, grazie a Lunàdigas, mi sembra di essere molto più leggera, sono quella che sono, sono una cittadina anche se non ho figli, anche se ho fatto altre scelte.  

 

MP: Durante le riprese ci siamo rese conto che il diaframma tra il ruolo di chi sta davanti alla camera e chi sta dietro non poteva essere sostenuto. Chiedevamo alle nostre testimoni delle cose così intime che noi non potevamo starcene ferme lì in ascolto senza far parte del gruppo. È stato difficilissimo, abbiamo fatto tante prove, e infine abbiamo trovato una cifra personale per parlare della nostra esperienza di donne senza figli senza inventare niente. In questa circostanza ho avuto ulteriore conferma dell'importanza di usare ironia, candore, rispetto, ascolto, attenzione e molte altre cure verso le persone che si raccontano intimamente. Vale per tutti, maschi, femmine, non binari, disabili e lunàdigas.

To cite this interview, please use this reference: DeLisle, Giulia (2022) "Intervista Alle Lunàdigas : Nicoletta Nesler e Marilisa Piga", Gynocine Project, Barbara Zecchi, ed. www.gynocine.com  

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