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Del rammendo e altre visioni [1]

Emanuela Piovano, Kitchenfilm

 

L’Italia, e in particolare Torino, negli anni Settanta e Ottanta, anni della mia adolescenza prima e della mia formazione professionale poi, hanno attraversato si può dire la Storia con la ‘S’ maiuscola, come forse era accaduto solo negli anni tra le due guerre del Novecento. Una specie di fermento e di contrapposizione tra quelli che credevano nel cosiddetto ‘impegno’  e quelli che non ci credevano più, e, forti del consolidamento di un certo benessere sociale, si apprestavano a diventare edonisti puri, con quella particolare variante che era il postmoderno e il post-strutturalismo. Pertanto chi, come me, sentiva forte l’esigenza di lottare per una società migliore, si scontrava quotidianamente con i compagni che invece ritenevano quella lotta un esercizio superato dai fatti, da quella pseudo società del benessere e della giustizia in cui ci si era cullati prima del brusco risveglio degli anni Novanta successivi.

Il cinema in questi due decenni (1970 e 1980) era: prima la passione di mio padre, che mi ci portava tutti i giorni. Cinema di genere, ma anche cinema indipendente americano, rivoluzionario (Robert Altman, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese). Poi in TV le grandi retrospettive: Paolo Pasolini, Roberto Rossellini, poi al liceo classico D’Azeglio di Torino i primi film proibiti da un ‘Potere’ statale molto contrapposto: in particolare Galileo (1968) di Liliana Cavani, visto clandestinamente ad uno dei primi cineclub italiani, il Movie Club, e poi lo scandalo di AAA.OFFRESI codiretto da Loredana Rotondo, Annabella Miscuglio, Paola De Martiis, Rony Daopoulo, Anna Carini e Maria Grazia Belmonti (1981), pietra miliare del documentarismo mondiale.

A quel punto mi fu chiaro che il cinema poteva essere un’arma buona ed efficace, moderna, e che abbracciarlo poteva significare molto per una giovane donna libera e appassionata. All’Università di Torino, la cattedra presieduta da Gianni Rondolino proponeva una lettura semiologica e un po’ alla Lionello Venturi del cinema. Anche perché allora la Storia dell’Arte era ancora capolista, per i teorici del cinema che si sarebbero sviluppati successivamente, tutta concentrata sulla lettura dell’opera come unicum, mentre la parallela cattedra di Cinema presieduta da Guido Aristarco cercava nell’opera i valori sociali sul modello di Lucacks e in generale del cosiddetto ‘rispecchiamento’ della società nell’arte. Ma anche in questo caso la matrice era della Storia dell’Arte. Contemporaneamente il centro produzione RAI di Torino si apriva alla società, coinvolgendo noi giovani in piccole e creative produzioni come gli RR Regionali che prima erano semplici rubriche a supporto dei servizi di informazione, ma grazie a Rondolino e al capostruttura Cesare Dapino furono una palestra per molti autori italiani di futura generazione.

In questo contesto molto pionieristico, in cui per la prima volta si rifletteva su un fenomeno che prima era solo prassi o alta filosofia, prendeva corpo in noi studenti lontani dai set di Roma, l’esigenza di imparare, di prendere in mano le macchine da presa, su modello della New York University che affiancava alle lezioni di cinema un vero e proprio laboratorio. A Torino, oltre alla RAI, c’era un singolare ente, che si chiama tuttora Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, affiliato agli Istituti Storici della Resistenza, nati nel dopoguerra per consolidare l’antifascismo, di cui costituisce la sezione audiovisiva, e diretto dal critico cinematografico e regista Paolo Gobetti (il primo a tradurre in Italia i formalisti russi, così preziosi per l’analisi del linguaggio cinematografico, fondatore di riviste e realizzatore di svariate opere sull’antifascismo, tra cui una monumentale opera di interviste e materiali di repertorio sulla Guerra di Spagna). All’Archivio noi, giovani reclute, imparavamo il mestiere da KINOKI, ovvero CINEOCCHI, gli operatori immaginati da Dziga Vertov, propugnatori di un cinema motore della ricerca della verità.

Ecco, questa la mia valigetta degli attrezzi, o, per restare nella metafora dello spettacolo, la mia valigetta di danza. Con Paolo Gobetti avevo contrattato il mio impegno lavorativo diurno (lavori di segreteria, redazione, catalogazione) con la disponibilità notturna del laboratorio. Pertanto, nel silenzio stellare della città meccanica preferita dai futuristi, mi accingevo nottetempo ad elaborare i miei primi progetti di interviste o piccole messe in scena. Per montare avevamo i grandi AMPEX dismessi dalla RAI, e  per girare le prime telecamere portatili, ma che ingombro!!! Per mixare – ma che dico – missare  – Il missaggio lo avrei acquisito tempo dopo, a Roma, quando ho fatto i miei primi lungometraggi. Ma missaggio a parte, la tecnica del suono fu uno dei miei primi compiti professionali riconosciuti, e con questa mansione, che mi vedeva con un gigantesco registratore NAGRA, Asta e Boom compresi, battevo le piste impervie dei partigiani su per le montagne. Sì perché fare cinema era fare comunità, dare voce a chi voce non aveva avuto, esplorare, ricevere più che emettere.

Iniziò così da subito la mia vocazione a fare corpo con altre autrici, o autore, oggi si direbbe ‘fare sistema’ ancora oggi un ‘sistema’ non del tutto consolidato in un’industria, quella del cinema italiano, che ha dato i suoi frutti migliori proprio fuori dal sistema, quando le sue smagliature lasciavano affiorare perle di spontaneità (uno per tutti il fenomeno del Neorealismo). Ma soprattutto mi resi conto che la mia missione era in particolare una: in quel momento in cui tutto sembrava possibile – e fattibile – nell’illusione degli anni Ottanta rampanti e dissoluti, c’era ancora una sacca di resistenza che andava percorsa e liberata.

Si trattava dell’attrice, della presenza della donna nell’immagine che il cinema raccoglieva e rimandava. All’epoca pensavo che questa doveva essere la mia rivoluzione da KINOKA, e devo dire, in parte lo penso ancora, anche se adesso trovo che il sistema ha accolto e fatto spazio alle istanze come la mia, e ho molte compagne a livello planetario che a quel tempo non avevo o non conoscevo. Una per tutte: porto sempre con me un’immagine che ha ispirato uno dei miei primi scritti sul cinema pubblicati su Fluttuaria negli anni ottanta, ‘Liberare la prima donna’, ed è Sigourney Weaver in Alien (Scott, 1979). Per la prima volta in un film una donna protagonista si afferma non come in un film di donne, ma come film assoluto, complice l’universalità libera e senza schemi della fantascienza. E si afferma come corpo che cerca una propria liberazione nella lotta con le macchine-protesi, dunque si afferma come ricerca, non come cliché. Quanta distanza dall’analogon precedente che ritroviamo ad esempio in Barbarella (Vadim, 1968)! Per me Sigourney Weaver in Alien ha costituito l’agnizione, la vocazione. Mi sono riconosciuta in quella lotta, in quello scarto, dove l’attrice (e nel mio caso la regista) lotta per una rappresentazione sapendo che quella rappresentazione non sarà la messa in congelatore della modella, ma lo sbocciare improvviso di un fiore che non si prevedeva e che subito si perderà, perché l’immagine è sempre in dialogo con chi la guarda, e in un attimo può sfiorire, ma, prima di sfiorire crea quel contatto e lascia quel segno, e questo è il cinema dei KINOKI, il cinema della  verità.

Ma quanto poi negli anni e nei lavori successivi mi sia portata dietro di quella scoperta o viatico, non sta a me a dirlo ma ai miei critici e spettatori. Però una cosa voglio dirla e scriverla. Quel viatico ha sempre lavorato dentro me ogni volta che ho incontrato un’attrice, più ancora di quanto ho incontrato sceneggiatrici e sceneggiatori. Perché è proprio sul campo della rappresentazione che si crea l’Habeas Corpus, e non nel testo che lo predetermina e che nei miei lavori si configura sempre come una traccia, mai come un percorso fissato. Anche se poi non lo si percepisce e i miei film sono comunque ‘moderni’ nel senso che sono narrativi e non più sperimentali, cerco sempre di lavorare con l’attrice su questo scarto, cercando con lei – e spesso contro di lei – di abbattere o comunque interagire – con quell’apparato di macchine gabbia in cui lei si costringe e in cui il corpo femminile è storicamente costretto e di cui Alien ha dato una sapiente metafora.

Ecco l’elenco delle mie attrici e una battuta per ciascuna, a corollario di quanto detto.

Laura Betti  (1927 –2004): quando volevamo che interpretasse l’amica delle detenute nel film  Le rose blu (Piovano, 1990), la prima cosa che mi ha detto è stata: ‘Ma tu lo sai che io non sono un’attrice?’ L’icona pasoliniana non era un’attrice? Eppure l’avevo vista anche a teatro, e poi aveva anche inciso dei dischi, ed era la bionda intellettuale di La dolce vita (Fellini, 1960). ‘Beh, nell’inquadratura io non ci sto, sono piuttosto un UROBORO, ci devi stare attenta, sono un’altra cosa da un’attrice’.

Iolanda Insana (1937 - 2016): grande poeta del ‘900, opera completa da Garzanti, ha scritto i testi per L’aria in testa (2012), e li ha recitati in piccole sequenze che punteggiavano il racconto. Abbiamo lavorato ad un personaggio tra Totò di Uccellacci e uccellini (Pasolini, 1966) e Tina Pica, ma perché ve lo dico? Bisogna vederla, è un alieno.  Non ha partecipato a nessun altro film ed ora non c’è più neppure lei.

Anna Rita Sidoti (1969 - 2015): campionessa mondiale di marcia, ha recitato in Le complici (Piovano, 1998) il ruolo di Marta, ragazza girovaga e motorizzata. Non aveva mai recitato né frequentato corsi. Ho deciso contro tutti di non farla doppiare perché credo fortemente nello scarto tra la recitazione accademica e quella non, che non è spontanea, è solo sgrammaticata, ma è uno scarto importante, che segnala ancora una volta quel percorso di lotta con e dentro l’armatura.

Sonia Bergamasco (1966 -): grandissima attrice tra le più giovani, scoperta da Giuseppe Bertolucci e magica presenza in La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana (2003), quando ha fatto la protagonista di Amorfù (Piovano, 2003) aveva paura che io non la dirigessi abbastanza. Eppure appartengo ad una scuola molto diffusa di maestri che lasciano molta libertà agli attori, pur costringendoli a muoversi in un percorso obbligato, ancora una volta la lotta con l’armatura – essere liberi nella costrizione per portare alle estreme conseguenze il superamento dell’armatura stessa – verso un’altra armatura? E via così all’infinito perché siamo umani e spirituali insieme. Ma da un maestro lo si accetta come una strategia, da una maestra si teme invece l’incertezza.

Simone Weil (1909-1943): in questo caso in Le stelle inquiete (Piovano, 2010) la lotta non è stato con l’attrice ma con il personaggio. La filosofa francese morta a soli 34 anni, considerata uno dei massimi pensatori del ‘900, non ha mai avuto rappresentazioni perché considerata ‘brutta’ e ‘non filmabile’. Il mio agente, quando gli ho presentato il progetto durante i primi del pitching, ha esultato. Pensava si trattasse dell’omonima Simone Veil, importante ministra francese. Quando ha capito che si trattava dell’altra Simone, quella con la doppia W, non ha potuto dissimulare il proprio sconforto: - ‘Ah no Emanuela! vuoi fare un film sulla Simone Weil brutta? No, non si può fare’. Il film l’ho poi fatto con rocambolesche avventure, mentre la sceneggiatura di Liliana Cavani e Italo Moscati, Lettere dall’interno. Racconti per un film su Simone Weil,  pubblicata nel 1974 da Einaudi, aspetta ancora una produzione.

Laura Morante (1956-): troppo recente la mia esperienza con questa mitica protagonista della nostra contemporaneità che ha recitato in L’età d’oro (Piovano, 2016) . Ma tale da poterlo considerare un traguardo. Laura è come la Sigourney Weaver da cui era partita la mia avventura. Anche lei porta i segni visibili e tangibili di quella pacifica lotta con se stessi per elevarsi, per sbaragliare traguardi, per esser più liberi senza dimenticare di amare, rispettare, contemplare. Ma soprattutto porta i segni dell’abbandono, del donarsi affinché nel suo corpo possiamo riconoscere il nostro, e nella sua passione ripercorrere la nostra. E non posso che esserle grata per il regalo che ci ha fatto interpretando Arabella in particolare nella scena finale quando, dovendo il personaggio da lei interpretato registrare una lettera al figlio lontano, fa una sorta di autocoscienza che la porta alla commozione, ma non è un commuoversi da fiction, non c’è l’autocompiacimento della maniera, ma il bucare lo schermo dei kinoki, arrivare alla verità, pur piccola, infinitesimale che sia.

Ma il rammendo del titolo, cosa c’entra alla fine? C’entra, perché se devo capire la relazione che passa tra questa che possiamo sintetizzare come lotta nell’armatura e la lezione dei miei maestri (non ho parlato di Gianni Vattimo, Adriano Aprà e Morando Morandini ma forse ci sarà un’altra occasione per approfondire), uno per tutti Paolo Gobetti e i suoi Kinoki vertoviani, questa relazione alla fin fine è una relazione di ponteggio, di rammendo appunto. Ci metto pure dentro la filosofia Weiliana un po’ zen della non azione. Secondo cui la macchina da presa è a sua volta un attore molto presente nell’opera, ma non solo come specchio. In questa tradizione la MDP è un reagente, un catalizzatore, ma la scena è quella che conta, come per Simone Weil è il mondo che si deve lasciare parlare, e non parlargli sopra.

Allora nel mio piccolo contributo a questa ‘scienza’ che non scopre se non ciò che rappresenta e ciò che rappresenta non sempre è quello che scopre (e questo è il limite che personalmente mi sono imposta), ritengo di agire non come un’ispirata autrice wagneriana, ma come un’umile operaia tessile. Per questo faccio film solo se mi si dà l’occasione, e non vado cercando lavoro. Per tenere in piedi la baracca, che nel mio caso si chiama KITCHENFILM ed è una piccola società di produzione e distribuzione che dura da 30 anni, preferisco a volte fare distribuzione di film importanti,  altre volte ricerche e basta che non sfociano in ‘prodotti’, altre volte ancora supporto centri di ricerca: il progetto OROSIA e i suoi Giorni diventati annuali da tre anni con il Comune di Bollengo, L’Archivio Nazionale del cinema di Impresa, la Film commission di Torino e altri supporter, La Fondazione Nilde Iotti.

Ringrazio dunque Flavia Laviosa e questo bello e inedito convegno di studi a Roma del Journal of Italian Cinema and Media Studies svoltosi presso The American University of Rome  il 14-15 giugno, 2019. Spero di aver dato con queste righe il mio contributo a questa occasione di scambio di esperienze tra colleghi ma anche con gli studenti, e anche oltremare! Con la fiducia che da cosa nasca cosa, e che dal rammendo si trovino i ponti per continuare la nostra ricerca, la ricerca che ognuno, mi auguro, possa sempre permettersi di fare.

 

[1] Intervento di Emanuela Piovano al convegno del Journal of Italian Cinema and Media Studies ‘Global Intersections and Artistic Interconnections: Italian Cinema and Media Across Times and Spaces’,  svoltosi presso The American University of Rome a giugno del 2019 all’interno della sezione Women and Cinema: ‘Del rammendo e altre visioni. il mio percorso di cine-autora’. Versione italiana del testo ‘Del rammendo e altre visioni (darning and other visions)’, pubblicato su JICMS, 8:2. Pp. 289–293.   

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