Intervista ad Annarita Zambrano di Flavia Laviosa (2017)
Nella seguente intervista Zambrano illustra i temi dei suoi cortomentraggi, spiega in che modo il tema della violenza ispiri tutti i suoi film, esamina perché ha scelto di esplorare la violenza del terrorismo ed infine elabora alcune riflessioni sulla applicazione delle tecniche della realtà virtuale alla cinematografia.[1]
F. L. Potresti darmi una panoramica dei tuoi lavori prima della realizzazione del tuo primo lungometraggio Dopo la guerra?
A. Z. Ho avuto la fortuna di realizzare, come regista, dieci cortometraggi, di cui due su commissione e gli altri scelti da me. Ho realizzato anche un documentario su Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963). I temi che più mi interessano e che ho cominciato a trattare nei corti riguardano il passaggio all'età adulta e in particolare la violenza dell’essere adolescenti, la violenza della crescita. Non mi riferisco a una violenza interpretata moralmente, né alla difficoltà di essere giovani e di diventare adulti. Parlo proprio di una violenza fisica. Ho cominciato a riflettere su questo perché è qualcosa che riguarda anche un po’ la mia persona, e poi mi interessa molto osservare che cosa significa non avere ancora filtri sociali. Nel cortometraggio Tre ore, per esempio, si assiste all’incontro tra due persone che non hanno ancora filtri sociali: il personaggio femminile è ancora troppo piccolo per avere questo tipo di filtri imposti dalla società, i quali cominciano all’età della pubertà e vanno di pari passo con il giudizio delle persone, mentre il personaggio maschile esce di prigione, quindi in realtà ha un altro tipo di filtro sociale. Mi interessava vedere in che modo queste due persone, spogliate da questi filtri, discutano, parlino senza veli. Anche in Dans la cour des grands abbiamo una persona che si trova ad affrontare la violenza senza capire da dove viene il bullismo nei suoi confronti. La violenza viene dalla società. Nei corti non si spiega da dove viene la violenza, per decisione mia, perché è raro farlo e il mio lavoro vuole essere di riflessione. Ti domandi da dove venga la violenza, ma in primo luogo sei impegnato a subirla e contrastarla. Affronto anche temi come la solitudine, la sensazione di accerchiamento, e come sopravvivere o non sopravvivere a questo tipo di violenza. Ophelia tratta di una poesia per una persona a me molto cara che è morta, e io volevo scrivere una poesia filmata per lei. Anche in quel caso c’era una violenza: la morte non spiegata di un’adolescente. Quando ero adolescente mi sembrava di non avere pelle, questo è il mio ricordo. Ed è una cosa che ha completamente cambiato la mia vita all’epoca: ancora oggi mi identifico più con gli adolescenti che con gli adulti. Perché quando subisci una violenza, questa violenza poi accompagna tutta la tua vita e poi si trasforma fortunatamente - e se sopravvivi - in qualcos’altro. Io ho cercato di trasformarla in creazione e quindi è ovvio per un autore che la prima cosa da farsi sia guardare le rivelazioni interne. Io non credo nelle idee, credo che ci siano delle necessità, e che poi ogni autore decida di raccontare queste necessità attraverso il linguaggio che sceglie: il mio è quello cinematografico. Io intendo la regia come una necessità e uno sguardo sul mondo. C’è un percorso interno che a volte non si vede nei film, c’è un filo rosso tra questi film che io ho fatto ed è il filo rosso sulla colpa, sulla violenza, su qualche cosa che riguarda la tragedia, le passioni umane che provocano questi dolori inspiegabili ed enormi. Quando ho deciso di fare il mio primo film automaticamente mi sono confrontata con una storia molto vicina al mio paese, anche se ero in Francia da ormai vent’anni, ma è così: il primo film di solito si fa per regolare i conti.
F. L. Per il tuo primo lungometraggio hai scelto un periodo, un personaggio, una storia che risveglia la memoria di anni difficili per l’Italia, quelli del terrorismo. Parlami di questa scelta tematica e dell’ambientazione in Italia e in Francia.
A. Z. Si, allora ho vissuto in Italia fino all'età di 25 anni e poi mi sono trasferita in Francia per completare il dottorato. Gli anni del terrorismo sono una parte della storia italiana che conoscevo in prima persona eppure con uno sguardo esterno: avevo 7, 8, 10 anni. Non avevo perciò una visione reale delle cose, ne avevo una filtrata dalla mia incapacità di parteciparvi direttamente, e allo stesso tempo c’era una atmosfera nera, violenta, di paura, in casa e per le strade. Una bambina non capisce, o meglio, capisce molte cose ma non elabora. Sicuramente questa atmosfera di pesantezza mi è rimasta addosso, anche una curiosità: era normale vedere in televisione morti, ammazzati, gente che sparava, come se fosse una cosa quotidiana. Ecco, penso che la cosa che mi abbia segnato di più fosse la quotidianità di questa violenza. Quando la violenza inizia ad entrare nel quotidiano diventa un problema: all’inizio provoca indignazione, ma se è ripetuta lascia indifferenti. Questa storia era anche affascinante: quando ho cominciato a crescere a 13, 14, 15 anni, ho notato quanto fosse anche legata a tante passioni e a un grande desiderio di libertà. È un periodo diventato subito, allo stesso tempo, nero, storico ed emblematico. Gli anni tra il ‘68 francese il ‘77 italiano erano un periodo che apparteneva ai giovani, una specie di rivendicazione. E naturalmente quando ho cominciato ad avere 15, 16 anni, che è un’età di rivendicazione dell’individuo, ho avuto la curiosità di capire chi fossero le persone che avevano ucciso, e ho iniziato a pormi delle domande. Che cosa volevano queste persone? Perché hanno ucciso? Perché hanno fatto questa scelta? Mi sono resa conto che il potere non rappresentava il popolo, che la classe dirigente era distante dalla realtà sociale. Quando cominciavo ad avere 18 anni il terrorismo stava finendo e i terroristi, ex-terroristi erano arrestati o scappavano in Francia. Quando sono andata in Francia, mi sono interrogata sul destino di queste persone. Siccome era stata un’epoca in cui ho partecipato come vittima collaterale, mi sono detta che forse questo film lo potevo realizzare raccontando le vittime collaterali. Questa era la mia speranza: inoltre volevo avere un doppio sguardo su una storia ‘doppia’ perché le persone che sono andate in Francia hanno avuto diritto a una nuova vita, ma sono sempre state attaccate a un filo che non si sapeva mai quando si sarebbe rotto. È vero che vivere attaccati a un filo è terribile e nello stesso tempo è terribile che loro abbiano privato della vita varie persone. Però nel mio intento non c’era una volontà di giudizio, c’era piuttosto una voglia di esplorazione.
F. L. Quindi, collocheresti Dopo la guerra nel filone di film che rivisitano la storia di questo periodo, oppure la tua è stata una scelta autonoma?
A. Z. Questo è un soggetto sicuramente politico, ma allo stesso tempo anche umano. Tutto ciò che è politico è umano. Non avevo la pretesa di fare un film per dare delle spiegazioni politiche, sicuramente ci sono delle domande politiche, ma in gran parte ho affrontato temi a me cari come il tema della famiglia, dell’oppressione della famiglia, dell’omertà e dell'incapacità di guardarsi dentro, della pretesa di aver sempre ragione, della colpa umana, politica, sociale e morale. È troppo riduttivo parlare di un film sul terrorismo. Potrebbe essere un documentario, forse. Ma nel momento in cui c’è fiction deve esserci per forza un’elaborazione. Il mio film è l’interpretazione personale di una situazione storica; è una realtà che conosci e che esplori. Il tema della colpa è qualcosa che mi interessa molto. Non volevo leggerla necessariamente come colpa politica, morale o sociale. Era una volontà di esplorazione dell’umano.
F. L. Dopo questo film in che direzione intendi procedere e che progetti hai?
A. Z. Sto preparando il mio prossimo film: farà parte di una trilogia che affronterà tre momenti diversi della vita di una donna, che però non sarà la stessa. Si tratta di tre donne in momenti diversi di formazione. Sarà una trilogia sulla difficoltà e la violenza di affrontare una formazione lavorativa, morale e di vita. Mi interesso anche alla realtà virtuale con il suo nuovo linguaggio e tecniche tutte da costruire. La realtà virtuale è a metà tra il cinema e il videogioco. Adattare la realtà virtuale al racconto, piuttosto che alla pubblicità o al videogioco, implica tantissime cose. Per esempio, una scrittura che non si conosce ancora e che si sta creando. Il montaggio nella realtà virtuale è diverso, ad esempio: si gira a 360 gradi, quindi il regista non può stare sul set, non può fare i primi piani, non c’è montaggio. Ci si domanda sempre quale sia il ruolo del regista, come faccia il regista ad esercitare il suo sguardo, il suo potere. La scrittura è diversa. Per esempio, si capisce che i registi teatrali sono molto bravi perché hanno già una nozione dei personaggi in scena contemporaneamente, mentre un regista cinematografico può permettersi di montare perché è tutto finto nel cinema. Ecco, la realtà virtuale ti mette in una condizione che è più simile all’unità di tempo, di spazio e luogo che vale per la tragedia classica. Quindi questo linguaggio si sta sviluppando in questo momento perché si gira anche con otto telecamere attaccate, per avere 360 gradi: ti puoi girare e vedere quello che c’è dietro di te, quindi è un’esperienza sensoriale. Esistono anche delle installazioni con il caldo e il freddo, sensoriali. Stiamo trapassando uno schermo. Sono interessata a capire come si possa usare questo nuovo modo di filmare per raccontare delle cose e se questo nuovo modo di raccontare sarà la maniera giusta che corrisponderà a un certo tipo di racconto. Quindi, ecco, l’idea è di capire come funzioni, se la sceneggiatura risponda alle regole classiche o no, come si faccia a risolvere la questione temporale (visto che non si può fare il montaggio), o qualora il montaggio si possa fare, se deve essere una rottura temporale completa, perché tu interrompi 360 gradi: non è un montaggio invisibile. Il montaggio cinematografico è sempre stato più o meno un montaggio invisibile, quindi tu, spettatore, quando vedi un film non sai neanche cosa succede, fruisci in modo inconsapevole. In questo caso non ci sarà il montaggio, non si può fare… è sicuramente una nuova frontiera.
F. L. Mi hai spiegato che siamo agli albori di queste nuove forme cinematografiche. Pensi che potranno sostenere il regista nella sua creatività o piuttosto è il regista che si deve piegare alla tecnologia e quello che i mezzi possono realizzare?
A. Z. Penso che un regista interessato a questo linguaggio troverà un modo di piegarlo alla sua esigenza. C’è sempre una forma di schiavitù nell’arte, e si dice sempre che il pittore è schiavo del suo quadro. Tuttavia penso che il regista non si debba piegare e non credo proprio che il cinema sarà soppiantato dalla realtà virtuale, sono due esperienze completamente diverse. Nel cinema c’è un’esperienza comunitaria, c’è un’esperienza che condividi con la persona nella sala scura, esci di casa per andare al cinema, è anche un momento sociale. La realtà virtuale è diversa, si fa un pò in solitudine: sono delle fruizioni completamente diverse. Non credo che il regista di cinema si debba sentire minacciato.
F. L. Pensi che ci siamo tipi di narrazione che saranno favoriti da questa tecnologia, oppure non necessariamente?
A. Z. Sicuramente i grandi gruppi in questo momento investono tantissimo nella realtà virtuale, la stessa Microsoft, per esempio, perché si parla di qualcosa che riproduce la realtà; poi la chiamiamo ‘realtà virtuale’, infatti è realtà, virtuale perché non è vera di fatto, comunque è una riproduzione della realtà. Quindi sicuramente ci sono tanti gruppi che investono ed è sicuramente più facile in questo momento interessarsi a questo nuovo linguaggio. Quello che è interessante è trasformare questo linguaggio in arte e non lasciarlo nella mano della dinamica esclusivamente pubblicitaria. Certo, il linguaggio si crea raccontando delle storie e una storia per essere raccontata deve avere un inizio, un centro e una fine, una storia deve avere un'unità di comprensione. L’inizio di una nuova tecnologia è sempre segnata da cose semplici, poi ci si evolve. In questo momento puoi vedere una persona che balla, puoi vedere delle persone che si tirano dei coltelli che ti passano vicino perché la realtà virtuale è questa. Poi un pò alla volta si dovrà creare un linguaggio e un racconto, quindi diciamo anche i grandi gruppi se da una parte si interessano a questo nuovo medium per la pubblicità, dall’altra sono anche interessati ad esplorare la possibilità di creare un nuovo linguaggio per il cinema. Le persone fanno investimenti nella realtà virtuale perché è qualcosa che non si conosce. La ricerca è velocissima. Ogni tre mesi si fanno dei progressi immensi. Prima si girava con due telecamere, prima c’era il 3D e adesso c’è la ‘realtà virtuale’: nel giro di sette anni circa si sono fatti grandi progressi. Per ora non esistono dei lunghi di più di 50 minuti perché sono neurologicamente difficili da seguire, tant'è vero le persone che lavorano in ‘realtà virtuale’ collaborano con i neurologi e con gli psichiatri perché è qualcosa che riguarda la condizione del cervello, è interessantissimo. Mentre prima si parlava nel cinema di identificazione primaria, di identificazione secondaria, adesso siamo dentro alla storia e questo può anche avere degli effetti mostruosi e negativi. La grande Kathryn Bigelow che ha fatto Strange Days, un film meraviglioso, ci parlava già di questo. È una cosa che crea tantissimo interesse è che approderà sicuramente da qualche parte, anche se per ora non si sa esattamente dove.
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[1] L’intervista si è svolta il 30 ottobre 2017 a Wellesley College, USA.
Per citare questa intervista: Laviosa, Flavia (2017): "Intervista ad Annarita Zambrano di Flavia Laviosa" Gynocine Project, Barbara Zecchi (ed.) www.gynocine.com/annarita-zambrano-1
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