ITALIANO
Conversazione
con
Rossella Schillaci
Tra le macerie e le miserie lasciate dalla dittatura e dalla guerra,
non si aggirava un fantasma, ma una forte voglia di ricominciare
(Graziella Falcone, in Fondazione Nilde Iotti)
Silvia Raimondi, Johns Hopkins University
Rossella Schillaci è nata a Torino, dove ha ambientato alcuni dei suoi lavori. Dopo la laurea e la partecipazione alla Scuola Video di Documentazione Sociale di Daniele Segre, ha frequentato il master in Visual Anthropology a Manchester, dove ha imparato a raccontare la realtà servendosi delle immagini piuttosto che delle parole. Grazie a quell’esperienza, e all’incontro con registi sperimentali quali Jean Rouch e David MacDougall, è nata l’attenzione per le tematiche legate all’essere umano e alla sua capacità di resilienza di fronte a realtà drammatiche e complesse. Spaziando dal tema del viaggio e dell’immigrazione a quello del carcere, i documentari di Rossella Schillaci sono sempre frutto di un incontro diretto, nella ricerca di una risposta a domande personali e antropologiche sulle sfide quotidiane di uomini e donne colti nel loro processo di trasformazione ed empowerment.
In Altra Europa (come anche in Solo questo mare e Shukri, A New Life), è il mare, insieme alla città, a fare da sfondo, a mostrare le difficoltà e le prove che i rifugiati appena arrivati in Italia si trovano ad affrontare, attraverso una narrazione che si sviluppa tra interviste, immagini e suoni. Una tecnica fatta di incontri umani, di relazioni e costruzioni di rapporti che la Schillaci predilige per ogni suo lavoro e che le consentono di calare lo spettatore nella realtà, con l’intento di stimolare interrogativi e riflessioni, come in Ninna Nanna Prigioniera, documentario legato al mondo femminile e al rapporto madre-figlio nelle carceri italiane. Dall’incontro con gli educatori e con la protagonista del film, la realtà della prigionia colpisce soprattutto attraverso l’identificazione con i bambini, di cui viene seguito con attenzione e precisione il punto di vista.
Tra le storie di resilienza, Libere (2017) si caratterizza invece per le differenze rispetto alle altre opere della regista: non potendo partire da un incontro diretto con le persone, non potendo ascoltare direttamente la loro storia, Schillaci racconta la Resistenza italiana attraverso un lavoro di scavo tra le fonti di vari archivi storici, tra cui l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino, dal quale emerge lo sguardo femminile di donne comuni, di bambine, di cui non vediamo i volti ma di cui sentiamo voci e ricordi. Un lavoro di evocazione del passato che traccia il percorso verso la libertà e l’emancipazione femminile, mostrando le donne non come eroine, ma come semplici persone in grado di “prendere delle decisioni di estremo coraggio, affrontando tempi straordinari, rischi e sfide”.
Silvia – La tua formazione e i tuoi studi sono legati alla Scuola Video di Documentazione Sociale, e la tua attività di regista si è orientata in tal senso; qual è stata la ragione della tua scelta? Come sei diventata una documentarista?
Rossella– L’arrivo al documentario è stato in un certo senso casuale, ma molto legato alla mia formazione di studio. All’università infatti studiavo sia cinema che antropologia, e grazie ai consigli della mia relatrice di tesi mi sono accostata all’antropologia visiva, che non conoscevo e che non era ancora particolarmente studiata qui in Italia. Quindi, è iniziato tutto da lì: dai primi studi di cinema e antropologia, che mi hanno poi portata alla scuola di Daniele Segre, sempre a Torino, dove ho potuto coniugare l’aspetto teorico affrontato all’università con quello più specificatamente tecnico. La scuola di documentazione sociale di Segre mi ha infatti permesso di acquisire sia le competenze tecniche -perché è lì che ho imparato a usare la camera, le luci, l’audio, il montaggio - sia una metodologia di lavoro, come partire da un’idea per svilupparla e arrivare all’esito finale. Durante questi studi, e dopo il conseguimento della tesi in antropologia visiva, ho scoperto l’esistenza di un master universitario a Manchester (Granada Centre for Visual Anthropology) interamente dedicato all’antropologia visiva.
S- Pensi che sia stata la frequenza di questo master in Visual Anthropology ad averti portata a maneggiare il documentario con una sensibilità differente e ad affrontare la trattazione di alcune tematiche con uno sguardo più attento alla rappresentazione dell’essere umano e dei diritti umani? La scelta delle tematiche connesse all’emarginazione si lega a questa tua formazione?
R– Sicuramente, ma allo stesso tempo questa scelta nasce anche dai miei studi e dalla passione per la fotografia: avevo una macchina fotografica, stampavo le foto in camera oscura, era proprio l’aspetto visivo a piacermi e ad affascinarmi. E poi fondamentale è stata la scoperta del documentario, che ho conosciuto soprattutto grazie ai festival ai quali avevo preso parte, come ad esempio quello di Torino e il “Festival del cinema delle donne”, dove c’era una sezione di documentari bellissimi e dove ricordo di aver avuto la possibilità di parlarne con le registe che mi hanno raccontato come provenissero anche loro dal campo dell’antropologia. Poi, certo, l’esperienza del master in Inghilterra è stata fondamentale. Infatti, se nella scuola di Segre avevo imparato a raccontare delle storie attraverso le parole, adottando principalmente l’uso delle interviste, a Manchester ho imparato a descrivere la realtà attraverso l’osservazione partecipante, quindi usando quasi esclusivamente le immagini. Ho inoltre appreso il metodo antropologico basato sulla ricerca sul campo, e ho capito proprio in quell’occasione quanto sia importante e necessario, per realizzare un buon documentario, creare una relazione collaborativa con le persone di cui poi si vuole raccontare, una relazione che sia di fiducia ma anche di condivisione. Tra l’altro, due autori che mi hanno colpito tantissimo e che ho conosciuto proprio grazie al master sono Jean Rouch e David MacDougall, tra i più grandi di quei tempi perché, combinando la doppia formazione di antropologi e di filmmaker, hanno realizzato tantissimi lavori, mostrando come non ci sia un unico modo per realizzare un documentario, ma molteplici forme diverse che variano in base al soggetto e all’argomento che ti accingi a raccontare.
Per quanto riguarda la tua seconda domanda, penso che alla base del mio lavoro ci sia sempre un incontro con la realtà, con delle persone che fanno scattare in me una serie di interrogativi, sia antropologici sia personali. Per questo mi è capitato spesso di cambiare tema o soggetto, incontrando ogni volta realtà nuove, stimolanti, spesso difficili: dalla tematica del carcere a quella della migrazione. Imparo molto dall’incontro e dal racconto di giovani uomini e donne che si trovano ad affrontare delle situazioni completamente diverse dalla mia, e che per me sono fonti preziose di insegnamento. Per cui raccontare queste storie significa non solo trasmettere un pensiero, ma soprattutto imparare qualcosa, sia sulla nostra e l’altrui cultura, sia sull’essere umano, sulle sue capacità di affrontare le difficoltà e di adattarsi a una nuova vita. Ciò che maggiormente mi interessa, quindi, è vedere la messa in atto di strategie di resilienza da parte dell’uomo, ed è per questo che non definirei i protagonisti dei miei documentari degli emarginati. Non è l’emarginazione a interessarmi o a essere alla base del mio lavoro, quanto piuttosto il suo contrario: sono le sfide e le conquiste che questi ragazzi giovanissimi affrontano, i cambiamenti e le trasformazioni che insieme a loro coinvolgono anche la società che li ospita. Infatti, mi chiedo: in che modo la nostra società reagisce al loro arrivo, alle difficoltà che si creano? Ecco, questo è ciò su cui rifletto nei miei lavori e dunque, più che di emarginazione, parlerei di un processo di trasformazione, di empowermentpersonale e collettivo, di crescita verso una nuova identità culturale.
Figura 1- (2016), a short film produced by Unafilm and Azul
S- Quindi, ad esempio, il momento in cui, in Altra Europa (2011), gli abitanti di un quartiere residenziale di Torino mostrano i loro dubbi sull’arrivo dei rifiugiati risponde a questo obiettivo, al desiderio di mostrare come la nostra cultura ha reagito all’immigrazione?
R- Sì, è assolutamente così. Ma lascia che ti spieghi meglio il progetto di questo e degli altri documentari sul tema dell’immigrazione (Solo questo mare -2009-, Shukri, A New Life -2010). Per una serie di motivi di lavoro, tra il 2005 e il 2006 ho lavorato con un equipaggio della guardia costiera siciliana, che mi ha raccontato dei salvataggi compiuti in mare in quell’anno e, poiché era allora un tema poco affrontato, ho sentito il desiderio di conoscerlo meglio, di poterlo raccontare anche dal punto di vista della stessa guardia costiera. Successivamente, invece, il progetto è divenuto più strutturato anche perché, rientrata a Torino ho scoperto che era appena stata occupata una ex clinica, quella che vedi ripresa in Altra Europa, in cui si trovavano gli stessi somali che erano stati salvati in mare dalla guardia costiera. Quando poi una delle mie colleghe dell’associazione culturale, la fotografa Chiara Ceolin, ha iniziato a lavorare alla realizzazione di un reportage fotografico, ho deciso di andare con lei. Per me era infatti un modo per accompagnarla, per fare solo interviste audio e inserirmi così più profondamente nella realtà che intendevo raccontare. Fino a quel momento avevo infatti conosciuto solo il punto di vista della guardia costiera, mentre mi mancava il racconto personale dei ragazzi. Ed è lì che ho saputo non solo del terribile viaggio che fanno _ non lo racconto ora, perchè purtroppo ormai è cosa nota: l’attraversamento del deserto, lo sfruttamento in Libia, gli abusi nei confronti delle donne, il viaggio in mare. Quel che inoltre mi ha più colpito è che questi ragazzi – giovanissimi - raccontino la loro tragica esperienza con un’ironia incredibile. Sicuramente è un meccanismo di difesa per superare eventi drammatici, ma ricordo che allora mi ritrovai a pensare: “Io sarei in grado di affrontare tutto questo?”. Partendo dalle foto di Chiara Ceolin, abbiamo organizzato una mostra fotografica e un cortometraggio, utilizzando le sue foto e le interviste e gli audio che avevo realizzato. Il corto, montato da Fulvio Montano (Approdi/Landing, 2006), è stato proiettato durante la mostra, che ha avuto un bel riscontro e da cui è nata l’idea di realizzare un lavoro più lungo proprio sulla vicenda della clinica. Abbiamo quindi realizzato Solo questo mare, che inizialmente sarebbe dovuto essere solo un trailer da presentare per ottenere i finanziamenti, ma che poi è divenuto altro in corso d’opera perché, mentre lo facevamo, mi è venuta l’idea di realizzare un corto a se stante che avesse una funzione più ampia di quella della sola ricerca di finanziamenti. Da lì abbiamo incontrato una commissioning editor di Al Jazeera che chiedeva un documentario di venti minuti, e a cui sarebbe piaciuto che ci si focalizzasse sulla storia femminile di Shukri - sia sulla sua vita alla clinica che sulla ricerca di un lavoro - così da vedere come queste persone si adattano, che realtà trovano. Abbiamo quindi realizato Shukri, A New Life per Al Jazeera, e contemporaneamente siamo andati avanti con Altra Europa. Sono dunque tutti progetti in qualche modo collegati, che provengono dalla stessa realtà e che usano gli stessi materiali, con un taglio differente in base all’utilizzo, e che consentono di notare come la situazione dei migranti venga trattata ancora oggi come emergenziale, quando in realtà sono vent’anni, e sottolineo il “vent’anni”, che le stesse dinamiche si ripetono in modo sempre uguale a se stesso. Proprio facendo quel lavoro ho capito che il mantenere una situazione emergenziale permette ai governanti e ai politici di non fare delle scelte: se infatti si riconoscesse che quella delle migrazioni è una realtà consolidata, si dovrebbe lavorare di più sui numeri che si hanno a disposizione per prevedere una serie di percorsi, di modalità di accoglienza, mentre invece il parlare costantemente di invasione, di emergenza, permette di presentare all’opinione pubblica questa realtà come pericolosa, e consente di fare delle scelte poco democratiche, importanti da raccontare e comprendere.
S- Quali difficoltà hai incontrato durante questo progetto? Immagino che la questione culturale, le differenze, abbiano avuto un impatto sul tuo lavoro. Puoi parlarmi di come è stato creare una relazione con persone culturalmente diverse da noi?
R- Difficoltà ce ne sono state tantissime, infatti quello di Altra Europa è un lavoro che è durato anni. Volendo parlare di regole, quella principale è proprio legata al lavorare con calma, prendere e prendersi tempo durante la preparazione, per capire e instaurare un rapporto di fiducia con le persone da intervistare. Il fatto che all’inizio avessimo solo un registratore audio e una macchina fotografica ci ha aiutate e ci ha concesso di avvicinarci in punta di piedi a questa realtà molto complessa, dove piano piano ci siamo fatte conoscere, abbiamo raccontato chi fossimo e cosa volessimo fare. Si tratta infatti di un processo di conoscenza reciproca: è vero che noi dobbiamo conoscere loro, dobbiamo intervistarli e capirli, ma è anche vero che loro devono conoscere noi. Tra le maggiori difficoltà, oltre alla questione culturale, c’è stata la lingua, ma pian piano siamo arrivati a un percorso di conoscenze - grazie anche al fatto che io abitavo vicino alla clinica e potevo concretamente fare qualcosa per aiutare la loro realtà - e si è creato un rapporto di fiducia con loro. Da questo rapporto privilegiato sono nati i miei progetti: ho cercato di capire il punto di vista dei ragazzi, la loro condizione di rifugiati, con in tasca i documenti da rifugiati, ma senza una casa nel paese di arrivo. E quindi, mi sono chiesta: che cosa vuol dire affrontare il deserto, affrontare i libici, cosa vuol dire per le donne subire violenze, abusi, affrontare il mare, rischiare la vita e poi trovarsi qui ed essere in mezzo a una strada? Qual è tutto il processo che bisogna fare, quali le sfide quotidiane da affrontare?
Figura 2- Shukri, A New Life (2010), Production Azul for Al Jazeera.
S- Prima mi parlavi degli autori che hai avuto modo di conoscere durante il master in Inghilterra: pensi che tra questi ce ne siano stati alcuni che ti abbiano aiutata nel tuo lavoro di documentazione sociale? Hai dei modelli ai quali ti sei ispirata per realizzare progetti così sfidanti e complessi?
R- Se dovessi dare solo due nomi, direi che ad ispirarmi maggiormente sono state Molly Dineen e Kim Longinotto, le due donne che più di tutte mi hanno fatto comprendere cosa volessi fare, specialmente come donna inserita in un settore (quello del cinema) in cui sono ancora gli uomini a prevalere. Per me entrambe sono state un bell’esempio, soprattutto se consideriamo che in Italia, in quel periodo, c’era ben poco a livello di documentazione al femminile. Ovviamente poi, come studentessa di cinema, ho visto e studiato i film “cult” e credo che anche le pellicole del neorealismo - come quelle della Nouvelle Vague francese - mi abbiano ispirato, come del resto hanno ispirato un po’ tutti. Altri importanti punti di riferimento sono stati anche Kieślowsky e Herzog, che hanno trattato in maniera psicologica le tematiche legate all’essere umano. Credo, insomma, che i registi siano tanti, ed è bello secondo me riuscire a prendere spunto il più possibile; non legarsi quindi solo ad alcuni nomi, ma cercare di vedere il più possibile come la vita e le vicende umane vengano elaborate e raccontate in modo diverso da persone diverse.
S- Tra i tuoi modelli hai citato due donne, che hai detto essere state le più importanti nel tuo lavoro. Secondo te, qual è il ruolo del femminile all’interno del settore cinematografico e quanto l’essere donna influisce sul tuo lavoro? Pensi si possa parlare, nel tuo cinema, di “sguardo al femminile”?
R- Ecco, io in realtà non credo esista uno sguardo femminile o maschile. Credo piuttosto che si possa parlare di uno sguardo molto soggettivo e forse anche culturale, nel senso che il tuo sguardo è chiaramente influenzato dalla formazione che hai ricevuto e che ti porta ad avvicinarti alle persone in una maniera personale e diversa da quella degli altri. Nei miei lavori rappresento quindi sia donne sia uomini, così come nelle troupe collaboro sia con operatori donne che uomini; per me non c’è differenza, e quello che cambia dipende appunto dalla personalità, dal modo di lavorare e dalle passioni. Chiaramente, per le donne ci sono più difficoltà nel settore cinematografico; difficoltà sia economiche, sia nel rapporto con le persone. Ricordo ad esempio che alcune ricerche le avevo fatte con un collaboratore uomo, e nonostante fossi io a fare le domande, le persone intervistate rispondevano a lui pensando che fosse il regista. E lui poverino continuava a dire “no, è lei la regista, io l’aiuto”, ma in alcuni ambiti era difficile accettare che un uomo fosse solo l’assistente di una donna. Noi poi ci divertivamo, ma alla fine io ho preferito andare da sola, perché altrimenti non sarei riuscita a instaurare un rapporto stretto con nessuna delle persone da intervistare. Anche produttivamente ci sono in generale più difficoltà, che aumentano nel momento in cui si hanno dei bambini, tendenzialmente perché quello cinematografico è un settore in cui i sostegni sono pochi, non c’è la tutela della maternità ed è difficile trovare asili nido. Quindi, soprattutto per i primi tempi, l’assenza di un sostegno familiare rende difficile fare questo lavoro, e questa è una tematica molto importante da discutere: perché nel 2020 ancora molte donne si trovano a dover scegliere tra il lavoro e la maternità? Perché un uomo non deve affrontare una scelta del genere? Alcuni giornalisti mi hanno chiesto come sia possibile combinare la maternità con l’essere regista e io mi chiedo perché la stessa domanda non venga posta a un uomo. Perché non si chiede mai a un uomo “come fai a fare il regista, essendo padre?”. Pensa anche alle scuole di cinema: io ho fatto dei corsi, dei seminari in cui gli insegnanti erano quasi tutti uomini, a fronte comunque di una popolazione studentesca mista. Che esempio diamo a queste ragazze? Perché c’è, ancora, così tanta difficoltà? Secondo me questo è l’elemento davvero importante, il problema di cui dovremmo parlare.
S- Secondo te esiste un “cinema delle donne”?
R- Penso che sia un discorso politico più che tematico. Ad esempio, alcuni centri di ricerca al DEA (donne e audiovisivo) hanno condotto delle ricerche che hanno statisticamente dimostrato che le donne hanno meno possibilità di avere ruoli importanti rispetto agli uomini (cit. ricerche nell’ambito dell’European Women’s Audiovisual Network). Più che registe o pruduttrici, le donne si trovano spesso a ricoprire ruoli ausuliari - come assistenti, segretarie di dizione - e ci si è chiesti perché. Quindi oggettivamente c’è più difficoltà per le donne ad entrare in questo mercato e io credo che qualsiasi evento o iniziativa volta a favorire la presentazione o la produzione di lavori di donne sia un atto politico estremamente importante e utile. È per questo che, ad esempio, trovo fondamentali i festival di cinema delle donne, non tanto perché i film sono fatti da donne, ma perché mostrano le sfide e i risultati a cui queste giungono, pur avendo oggettivamente meno accesso ai finanziamenti e lavorando con budget più ridotti rispetto ai loro colleghi uomini.
S- Per collegarmi a questo discorso sul femminile, parlerei di Ninna Nanna Prigioniera (2016), il documentario sul rapporto madre-figli nella realtà delle carceri italiane. Puoi spiegarmi da cosa è nato questo progetto?
R- Si tratta di un progetto nato del tutto per caso, da un incontro. Infatti, dopo la nascita di mio figlio ho frequentato un corso di massaggio infantile e l’asilo dove il corso è stato svolto era vicino al carcere di Torino. Non so come, con le educatrici si è parlato proprio del fatto che nell’asilo fossero ospitati dei bambini del carcere, e loro stesse spesso andavano a prendere i bambini per realizzare varie attività. Per me si è aperto un mondo, perchè io non sapevo che la legge italiana tutelasse il rapporto madre-figlio, soprattutto per i primissimi anni del bambino (fino ai tre anni) e permettesse alle donne di scegliere se tenere il bambino oppure no. A livello teorico sembra una legge estremamente all’avanguardia, che tutela i diritti dell’essere umano, sia del bambino sia della madre. Però da genitore mi sono chiesta come sia possibile crescere un bambino in una prigione, perché ho immaginato che le difficoltà debbano essere enormi. E quindi è nato il desiderio di conoscere una realtà che mi toccava personalmente, il rapporto madre-figlio, ma che allo stesso tempo ritenevo andasse divulgata. Anche qui, il percorso è stato lunghissimo: ho fatto ricerca prima “dal di fuori”, parlando con educatrici e responsabili, e poi pian piano sono riuscita a ottenere l’autorizzazione per accedere al carcere in cui è stato girato il documentario, cercando di mostrare la necessità di mettere in atto pratiche e situazioni che veramente e concretamente tutelino questo rapporto. Ad esempio, subito dopo l’uscita del film, è stata costruita una struttura chiamata ICAM (istituto di custodia attenuata per madri), completamente diversa da quella che si vede nel film, priva di sbarre e più a misura di bambino: si tratta di una prima conquista, ma ancora c’è molto da fare. Tra l’altro, sto pensando di realizzare un nuovo progetto proprio sull’ICAM, per osservare la realtà dei bambini più grandi, che hanno un’età diversa rispetto a quelli che ho ritratto in Ninna Nanna prigioniera e che, potendo parlare ed esprimersi, sono in grado di raccontare il loro personale punto di vista. Mi piacerebbe quindi fare un lavoro principalmente sul punto di vista dei bambini.
S- Quali sono state le tue riflessioni riprendendo e ragionando su questa realtà?
R- In qualche modo, le mie riflessioni sono all’interno del film. Preferirei però rivolgere a te la stessa domanda: cosa pensi che emerga dal mio documentario? Quali sono state le tue impressioni, le tue riflessioni dopo la visione del film?
S- Quel che io ho percepito del tuo documentario, e su cui mi sono interrogata, è il desiderio di farci vivere l’esperienza dei bambini, soprattutto quella di Lolita, di dare loro attenzione e riconoscimento
R- Sì, l’obiettivo era proprio questo: raccontare la madre, certamente, ma soprattutto i bambini, il più possibile i bambini. E poiché, a causa dell’età, ancora non parlano bene e non si esprimono, ho deciso di seguirli mettendo il più delle volte la camera in basso così da mostrare la realtà dal loro punto di vista. In effetti, seduta a giocare con i bambini, mi sono resa conto che il mondo appare diverso se lo si guarda da un’altezza diversa: vedi le cose in modo differente, presti maggiore attenzione a dettagli come quelli della divisa, della pistola, delle sbarre. Tutto appare in prospettiva, tutto è più grande, enorme. E quindi, con l’operatrice direttrice della fotografia, Stefania Bona, abbiamo pensato veramente di dividere i due punti di vista: quando eravamo con gli adulti, ci ponevamo alla loro altezza, quando eravamo con i bambini, ci siedavamo per terra così da provare a guardare dalla loro prospettiva. È un modo per raccontare in modo diverso il carcere, perché è un carcere diverso quello che vedi
Figura 3 - Ninna nanna prigioniera (2016)
S- E in effetti il tuo cinema non si accontenta di descrivere didatticamente la realtà, ma la fa vivere attraverso le voci e i gesti dei suoi protagonisti. C’è un motivo preciso che ti ha portata e ti porta a privilegiare la scelta del “cinéma vérité”?
R- Come ti dicevo, ho studiato antropologia visiva e tra i documentari che ho visto e analizzato ho trovato esempi di grandissima importanza che hanno influito sulla mia scelta. Pensa a Rouch o MacDougall, maestri dell’osservazione; il loro intento non è raccontare a parole, dichiarare, fare dichiarazioni, ma mostrare la realtà ed evocarla attraverso scene di osservazione che portino lo spettatore a calarsi il più possibile all’interno, anche se chiaramente in forma mediata. Quindi, non voglio dire esplicitamente allo spettatore: “Guarda, la realtà è questa e la situazione è questa”, come succedeva in tanti documentari italiani degli anni Sessanta in cui c’era la voce fuori campo a spiegare esattamente ciò che accadeva nella scena, ma cerco di costruire un racconto cinematografico - anche attraverso le immagini, i suoni, gli ambienti - che porti lo spettatore a farsi un’idea e un’opinione personali di ciò di cui si parla. Ecco perché non ho risposto direttamente alla tua domanda, perché io non posso dirti cosa penso del mio documentario. Certo, chiaramente ho il mio punto di vista, ma quello che realmente vorrei è che ogni spettatore entrasse dentro il film, dentro la realtà che mi accingo a raccontare, e facesse le sue riflessioni in base alle sue esperienze personali. Una madre, ad esempio, potrà percepire delle cose da Ninna nanna prigioniera, un giovane ne percepirà delle altre. È questo che io trovo interessante; questa creazione di un processo, di un vero e proprio rapporto, tra lo spettatore e la realtà che rappresento. Quello del “cinéma vérité” è un metodo che consente una partecipazione attiva dello spettatore nella creazione del senso del contenuto e che proprio per questo è anche più pericoloso, perché in effetti non c’è un messaggio univoco, ma tutta una serie di suggestioni vissute in maniera molto diversa da ogni spettatore. Trovo che sia la grandezza e la grande potenzialità del cinema. Pensa a film che ti portano in mondi totalmente particolari e ti ci fanno immergere completamente, pensa alla Rohrwacher o a Garrone… C’è questa idea, no?, di immergerti in un mondo, di provare a farti percepire suoni, a farti vedere questa realtà con gli occhi dei protagonisti, e a farti porre delle domande. Infatti mi ha molto colpito che tu abbia detto del mio documentario “mi sono chiesta”. Il mio intento è proprio quello, far sì che lo spettatore conosca una nuova realtà e soprattutto cominci, come ho fatto io, a porsi delle domande. Penso sia questa la grande ricchezza di ogni lavoro creativo ed espressivo: bisogna aprire il mondo, creare un dialogo di conoscenza, non limitarsi a fornire le istruzioni per l’uso.
S- Che è poi quello che proponi con Libere (2017): un documentario in cui viene a crearsi l’occasione di un dialogo di conoscenza, di un modo nuovo di vedere una storia, quella della Resistenza, di solito contemplata attraverso lo sguardo maschile. Parliamo un po’ di questo progetto?
R- Allora, innanzitutto l’idea è stata di Paola Olivetti, la direttrice dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino, perché da tempo sapeva di avere all’interno dell’archivio molte interviste preziose fatte a donne, oggi per lo più scomparse, con le quali intendeva realizzare un lavoro sul ruolo femminile nella resistenza. Io all’inizio ero un po’ perplessa, sia perché quello della resistenza italiana mi sembrava un discorso già affrontato e trattato in modo sempre uguale a se stesso, spesso retorico, sia perché si trattava per me di un lavoro nuovo: come sai, ho sempre fatto ricerca sulla realtà, lavorando con le persone, mentre qui si trattava di archivio, di scavo delle fonti.
Però allo stesso tempo l’argomento mi interessava molto perché, dopo aver parlato del carcere e dell’imprigionamento, mi sembrava “in tema” l’idea di creare un’opera sulla liberazione. Ho iniziato quindi a guardare tutti i lavori importanti prodotti sull’argomento, quello della Cavani (La donna nella Resistenza, 1965) e altri documentari tratti dall’archivio di Paola Olivetti_ tra l’altro realizzati usando sempre le stesse interviste che poi ho usato anche io_ e ho letto, ho letto tanto. C’è stato il Diario partigiano di Ada Gobetti, quello di Bianca Guidetti Serra… il materiale pubblicato è tantissimo. Nonostante le differenze rispetto agli altri progetti, il processo seguito è stato comunque lo stesso: cercare di capire la realtà dal punto di vista dei personaggi, in questo caso le donne. Mi sono chiesta “come hanno veramente vissuto questa storia?” e da lì ho proseguito. Certo, mentre con i personaggi ancora in vita il lavoro di scavo può essere fatto dialogando, qui dovevo utilizzare gli scritti e le interviste già realizzate da altre persone. Per cui le ho ascoltate con attenzione, per intero, leggendo anche le trascrizioni, e ho notato che all’interno c’erano interi brani che non erano mai stati utilizzati, brani in qualche modo filosofici, politici, di riflessione riguardo al senso che la partecipazione politica ha avuto per queste donne. Ed è lì che mi sono rispecchiata, lì che è iniziato il dialogo e il desiderio di realizzare un lavoro che non fosse retorico, che non annoiasse con i soliti schemi in cui i personaggi divengono eroi d’altri tempi. Sentendo e leggendo queste interviste, per la prima volta ho sentito di trovarmi davanti a una storia “altra”, diversa, non fatta solo di numeri o cifre, ma di persone vere, di ragazzine: alcune delle donne intervistate avevano solo quattordici, quindici anni quando fecero la loro scelta e io mi sono chiesta cosa avrei fatto al loro posto, se mi fossi trovata lì. Quindi, vedi che di nuovo nel mio cinema si torna al solito processo, alla voglia di raccontare queste persone non come eroi ma come persone comuni che si ritrovano ad affrontare tempi straordinari, a prendere decisioni di estremo coraggio, ad affrontare rischi e sfide. Poi mi sono chiesta per quale motivo, ancora oggi, nei dibattiti e nelle conferenze si insiste nel presentare la donna resistente come “madre di famiglia”, che compie questa scelta per aiutare i figli e il marito. Sempre la madre, sempre la donna come ausiliare, come figura di sostegno! E invece no, perché non raccontare la verità? Perché non uscire dalla retorica italiana che nel 2020 ancora si rifiuta di comprendere e accettare che le donne possano combattere esattamente come gli uomini? Le partigiane che ho raccontato erano solo ragazzine che hanno fatto una scelta ideologica, hanno combattuto, hanno imparato a usare le pistole, hanno fatto precise scelte di responsabilità, e potevano non farlo. C’erano le madri, certo, ma c’erano anche le ragazze, quelle che hanno partecipato alla Resistenza perché lo hanno scelto: hanno scelto di combattere. Mi sembra quasi che sia un’idea che ancora un po’ spaventa, quella di una donna che ha potere e diritto di scelta e di azione sulla propria vita. Per questo motivo ho deciso di selezionare tutti quei brani che più mi sembravano non raccontati e che potessero aggiungere un tassello importante ai pochi studi, come La Resistenza taciuta di Bruzzone e Farina[1], che si interrogano e riflettono su questa tematica.
S- Nel documentario, poi, hai scelto di non mostrare i volti delle donne protagoniste - che non compaiono mai, se non nelle foto in chiusura - ma di farci ascoltare solo le loro voci, le loro parole. Perché questa scelta?
R- L’idea di non mostrare i visi si collega principalmente al mio lavoro di immedesimazione nelle storie ascoltate, sebbene ci siano stati anche dei problemi tecnici poiché, avendo a che fare con materiale in formato analogico registrato più di vent’anni fa, mi era difficile tenere stilisticamente un livello cinematografico alto. La ragione principale però sta nei sentimenti e i pensieri che ho avuto durante l’ascolto delle interviste e nello studio del materiale d’archivio. Leggendo le trascrizioni delle interviste, infatti, mi sono trovata spesso a immaginare queste ragazzine al momento della scelta, alla loro vita e alla semplicità con cui dicevano “a tredici anni sono andata a lavorare in fabbrica”, e le ho visualizzate nel periodo storico che raccontavano. Il mio è stato un lavoro immaginativo, che però è emerso dalle voci, dalle parole, e non dai video, perché nei filmati io mi ritrovavo davanti donne anziane che raccontavano storie dal passato e che, così facendo, mi allontanavano dalla realtà in cui io cercavo di calarmi. Per cui, vedere degli anziani che ti raccontano del passato secondo me porta a un discorso retorico, come a dire “è un altro tempo, è successo nel passato. Sono vecchia, te lo racconto, adesso”. Invece no, quello che mi interessava era il punto di vista delle ragazzine, il loro essere partigiane allora, non ora, e quindi l’unico modo che ho trovato è stato quello di non mostrarle. Ho fatto un lavoro lunghissimo, e veramente complesso, di evocazione, di ricerca di materiali visivi che ritraessero le donne in azione, che le mostrassero così come erano all’età in cui hanno partecipato. È importante sottolineare questo, perché per loro quella della Resistenza è stata una scelta sia politica, di liberazione dell’Italia dal nazismo e dal fascismo, sia di emancipazione della donna da un sistema patriarcale molto arretrato.
Figura 4- Libere (2017), produced by ANCR Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza and AZUL
S- Questo spiega il fatto che il tuo documentario racconti la resistenza ma poi passi a documentare il dopoguerra e il lascito del diritto di voto?
R- Sì, perché quando ascolti le parole di Bianca Guidetti Serra ti chiedi come sia poi cambiata la situazione, quanto il sistema sia divenuto migliore, quanto le lotte abbiano poi creato un cambiamento. Il rapporto continuo tra passato e presente era obbligato, perché anche tu prima mi hai chiesto come mai ancora oggi la realtà delle donne sia più difficile di quella degli uomini, e la ragione ha radici antichissime, che si devono cercare nella storia. Per questo è fondamentale raccontare il passato, affinché aiuti a capire il presente, ed è per questo che in Libere c’è stato un continuo lavoro di selezione, dove ho cercato di ritagliare ed evidenziare tutto quel che potesse aiutarmi a raccontare queste diverse realtà e a riflettere sul presente. E a farlo in modo diverso, fuoriuscendo dai soliti lavori storici, che non a caso sono raccontati da storici uomini. La storia, spesso, viene raccontata in base alla domande di ricerca che si fanno: ho voluto dunque provare a raccontare una storia che avesse delle domande diverse, femminili, che raccontassero una storia di resistenza da parte delle donne.
S- Una storia raccontata anche attraverso le mani dell’archivista, riprese mentre lavorava sulle fonti storiche. Mi sembra una scelta davvero interessante e originale …
R- Frequentando l’archivio, ho capito quanto l’archivio stesso fosse uno scrigno in qualche modo sconosciuto che custodiva materiali preziosissimi; dai giornali alle foto in vetro, mi è apparso come un mondo che rischia di scomparire per carenza di fondi. Anche lì un discorso politico, che ti porta a pensare che sarebbe necessario preservare questo materiale, perché nel momento in cui scomparisse non ci sarebbero più fonti, non ci sarebbe più la possibilità di recuperare la storia. Mi ha colpito la dichiarazione in cui Ada Gobetti, che ho inserito all’inizio del film, chiede una ricerca sulla Resistenza, e un po’ mi sono sentita chiamata in causa. Alla fine il mio documentario e la ripresa sulle mani dell’archivista sono una risposta a questa richiesta, sono un modo per mostrare l’archivio, per mostrare e raccontare come questa ricerca sia stata fatta e quanto sia stato necessario scavare. Hai visto le foto a colori? Anche quelle sono state frutto del lavoro di ricerca negli archivi e anche lì, perché non sono conosciute? Perché non le avevo mai viste prima? Sono un bene dell’umanità, pratimonio prezioso che deve essere valorizzato.
S- Per concludere, pensi che la lotta delle donne della Resistenza, che molte partigiane identificano come “inizio dell’emancipazione femminile”, abbia avuto influenza sul presente e abbia contribuito a modificare l’immagine della donna come la intendiamo oggi?
R- Assolutamente. Come dicono le donne delle interviste, che vivevano in una struttura sociale ancora profondamente ottocentesca, è proprio grazie a quel periodo che è nata un’idea di emancipazione, di liberazione femminile. Pensa anche al voto: è stato dato alle donne solo nel 1946, grazie alle partigiane, alla loro partecipazione, alle loro richieste. Lo stesso vale per gli asili nido, per il sistema di assistenza _ tutte esigenze proveninenti dalle donne, provenienti dal territorio e dal contatto costante con le persone. Pensa a Teresa Noce, a Nilde Iotti, entrambe donne della Costituente: quanto hanno lottato? Erano donne che venivano dalla Resistenza e a cui non possiamo che essere infinitamente grate.
Figura 5 - Libere (2017)
[1] Anna Maria Bruzzone and Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi (Torino: Bollati Boringhieri, 1976).
To cite this interview, please use this reference: Raimondi, Silvia (2021) "A Conversation with Rossella Schillaci " Gynocine Project, Barbara Zecchi, ed. www.gynocine.com